RISERVA NATURALE DELLE VALLI CUPE

Una delle più importanti riserve calabresi, viste dall’occhio del geologo.

Da un punto di vista strettamente geologico, la Riserva Naturale delle Valli Cupe è ubicata nella Presila catanzarese, in corrispondenza del settore sud-orientale del Massiccio della Sila; quest’ultimo è delimitato a nord e ad ovest dalla valle del Fiume Crati, a sud dalla stretta di Catanzaro e infine a est dai bacini di Rossano, Cirò e Crotone.

Il massiccio della Sila è un importante elemento di quello che viene definito in letteratura “Arco Calabro Peloritano (ACP)”, il quale è stato interpretato come un frammento di catena alpina, sovrascorso sulla catena appenninico-maghrebide.

L’Arco Calabro Peloritano è stato differenziato in due distinti settori che vengono a contatto lungo un allineamento strutturale, poco a sud di Catanzaro, che da Capo Vaticano, attraverso la valle del Fiume Mesima, si estende fino a Soverato: il settore settentrionale e il settore meridionale dell’ACP.

Il settore settentrionale si estende dal lineamento tettonico di Sangineto fino all’allineamento Capo Vaticano-Soverato mentre il settore meridionale dell’ACP si sviluppa a sud dell’allineamento Capo Vaticano-Soverato fino al lineamento tettonico di Taormina e comprende quindi le Serre, l’Aspromonte ed i Monti Peloritani.

Fig.1: Collocazione dell’Arco Calabro-Peloritano all’interno del Sistema appenninico-maghrebide (Amodio-Morelli et Al., 1976 [1] ).

La matrice geologica che caratterizza la Riserva è contraddistinta da un basamento cristallino, composto da rocce magmatiche intrusive e metamorfiche (graniti, gneiss e scisti biotici); quest’ultimo è quasi sempre interessato da processi di alterazione chimico-fisica che ne indeboliscono la struttura fino a fargli assumere spesso la consistenza di un terreno sabbioso (noto a molti come “sabbione granitico”).

In corrispondenza delle formazioni sedimentarie, affioranti al di sopra del basamento cristallino e caratterizzate essenzialmente da conglomerati ed arenarie, si possono osservare importanti e suggestive forme di erosione, come per l’appunto i “canyon”.

Fig.2: Paragenesi mineralogica del granito.

 

Il termine inglese “Canyon” è sinonimo di “gola”, in termini geomorfologici, semplificando, si tratta di una stretta vallata dai versanti scoscesi e aspri, che si forma a seguito dell’azione erosiva esercitata dai fiumi nel corso del tempo.

Nell’area sono presenti numerosi corsi d’acqua di dimensione differente e con portata molto variabile in funzione della stagione e delle precipitazioni. Si hanno inoltre numerose piccole cascate.

In generale, una cascata si forma a seguito di repentini dislivelli che interessano il letto di fiumi e torrenti, in un contesto morfologico aspro e contraddistinto da pendenze importanti.

Da un punto di vista climatico, possiamo individuare due distinte fasce, suddivise dal fattore altimetrico: a quote superiori agli 800 m s.l.m., abbiamo sostanzialmente un clima di tipo temperato freddo, mentre a quote inferiori agli 800 m s.l.m., il clima assume caratteristiche marcatamente mediterranee.

A queste tipologie di clima, si accompagnano anche microclimi del tutto particolari, testimoniati, all’interno della riserva, dalla presenza di associazioni vegetali peculiari.

Dott. Geol. Matteo Montesani

 

[1] Amodio-Morelli L., Bonardi G., Colonna V., Dietrich D., Giunta G., Ippolito G., Liguori V.,Lorenzoni S., Paglionico A., Perrone V., Piccarreta G., Russo M., Scandone P., Zanettin-Lorenzoni E., Zuppetta A. «L’Arco Calabro Peloritano nell’Orogene Appenninico-Maghrebide.» Memorie della Società Geologica Italiana 17 (1976): 1-60.

La forma della Terra

Introduzione

L’argomento di questo articolo è la Geodesia, ovvero lo studio e la rappresentazione della Terra.

È davvero difficile accettare che in una realtà tecnologicamente avanzata come quella dei giorni nostri esistano i terrapiattisti, gente che associa la forma del nostro pianeta a una pizza gigante.

Secondo Gianluca Ranzini, astrofisico e giornalista della rivista Focus, il terrapiattismo moderno deve le sue origini a un controverso personaggio dell’Inghilterra del XIX secolo di nome Samuel Birley Rowbotham, che provava con i suoi esperimenti a dimostrare che la Terra è piatta.

La Flat Earth Society, società della terra piatta, conta qualche migliaio di iscritti nel globo (come loro stessi affermano, senza cogliere l’ironia di tale affermazione).

La democrazia e il progresso tecnologico sono state sicuramente due grandi conquiste dell’umanità; nonostante ciò, ogni medaglia ha due facce e la faccia oscura di questa medaglia è correlata al fatto che le suddette conquiste hanno consentito di portare a tutti quanti (proprio a tutti) le proprie idee a una platea mondiale.

In questo scenario è facilitata fortemente la condivisione di fake news e la diffusione a macchia d’olio di teorie prive di alcuna validità scientifica come per l’appunto il terrapiattismo; quest’ultimo, ahimè, è stato anche valorizzato e portato avanti da personaggi famosi e influenti e di riflesso anche da molti dei loro fan.

Davanti a una persona che sostiene il terrapiattismo si potrebbe anche sorridere e far finta di nulla; tuttavia, è comunque utile dissipare ogni dubbio che possa sorgere a riguardo.

Alla luce di questo, l’obiettivo dell’intervento di oggi sarà quello di dare alcune indicazioni scientificamente riconosciute e approvate sulla forma della Terra aiutandoci con alcuni esempi[1].

Per la stesura del presente articolo, dal momento che concerne un campo tanto ostico quanto importante, ho richiesto la collaborazione del Dr. Innocenzo De Marco, fisico e dottorando presso l’Università di Leeds e ricercatore presso Toshiba Europe Ltd, il quale ha collaborato con me nella stesura dell’intervento.

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[1] Al fine di rendere l’articolo accessibile e comprensibile a tutti, verranno schematizzati i risultati delle dimostrazioni scientifiche alle quali si è arrivati nel corso dei secoli, senza riportare i complessi calcoli matematici che hanno condotto alle dimostrazioni di cui sopra.

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La forma della Terra

L’idea che la Terra sia piatta è ragionevole, a prima vista: le enormi dimensioni del pianeta rendono la curvatura praticamente invisibile all’occhio umano. Una fotocamera con zoom sufficientemente potente può scattare una foto a un pallone da basket abbastanza ravvicinata da farne sembrare piatta la superficie.

Che la Chiesa e la società nel Medioevo credessero alla Terra piatta è un falso storico: già nell’antica Grecia, la concezione della Terra piatta era stata abbandonata.

Platone e Aristotele scrivevano che la forma della Terra deve essere sferica, per rimuovere l’assunzione che ci sia qualcosa a sostenerla nello spazio.

Altre osservazioni sono utili a mostrare che la Terra non è piatta: l’esempio più classico è una nave che si avvicina dall’orizzonte.

Se la Terra fosse piatta, la nave comparirebbe come un puntino che si ingrandisce man mano che si avvicina.

Quello che invece succede è che sono gli alberi e le vele della nave ad essere avvistati per primi, in quanto più alti e quindi in grado di “superare” la curvatura terrestre prima del resto della nave.

 

 

Una nave che scompare all’orizzonte in una Terra sferica (okpedia.it).

 

Eratostene fu il primo a misurare con sufficiente precisione la circonferenza della Terra.

Durante lo stesso giorno, Eratostene notò che il Sole proiettava un’ombra diversa dello stesso bastone in due città diverse. Conoscendo la lunghezza del bastone e misurando le due diverse ombre, Eratostene riuscì a calcolare la circonferenza della Terra ottenendo un valore molto vicino a quello considerato corretto oggi.

In seguito, l’avanzare della Scienza portò a ulteriori raffinamenti nella rappresentazione della Terra.

A partire dal XVII secolo, gli studi di Newton e Huygens portarono ad attribuire alla terra una forma ellissoidica appiattita lungo l’asse di rotazione terrestre; tale forma nel complesso fu definita “ellissoide oblato”. L’idea alla base è che l’equatore “ruota di più” rispetto ai poli, essendo più lontano dall’asse di rotazione.

Per questo motivo, la Terra si è “schiacciata” ai poli durante la sua formazione. Nel 1700 il matematico e astronomo francese Clairaut descrisse una forma geometrica che approssimava molto bene la forma della terra, ossia una figura solida appartenente alla famiglia delle quadratiche, definita “ellissoide di rotazione”, simile all’ellissoide oblato di Newton e Huygens.

L’ellissoide di rotazione proposto da Clairaut era caratterizzato da un semiasse maggiore corrispondente all’equatore terrestre e da uno schiacciamento in corrispondenza dei due poli; questo peculiare ellissoide di rotazione fu definito “sferoide”.

Oggi, dopo secoli di studi e complessi calcoli, si è arrivati ad affermare che la migliore approssimazione della forma della terra è un “geoide”, un particolare solido definito come una superficie equipotenziale (ovvero una superficie su cui l’accelerazione di gravità è costante) passante per il livello medio del mare.

 

Rappresentazione della forma della terra con geoide o ellissoide (openoikos.com).

 

La superficie del geoide presenta alcune ondulazioni in più rispetto allo sferoide di Clairaut, dovute alle diverse concentrazioni e densità di materiali distribuiti sulla superficie della Terra, ma non si discosta sensibilmente da quest’ultimo (Gasparini e Mantovani, 1981[2]); di conseguenza, si può considerare lo sferoide di Clairaut come modello teorico della terra sul quale effettuare calcoli.

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[2] <<Fisica della terra solida>>; Gasparini P. & Mantovani M.S.M, 1981

 

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Considerazioni conclusive

L’obiettivo di questo articolo è stato quello di prendere, metaforicamente, una piccolissima parte della punta di un grande Iceberg di studi e dimostrazioni condotte nel corso dei secoli fino ad oggi e sintetizzarlo in termini semplici e accessibili a tutti; già dalle poche nozioni ivi riportate (dimostrate scientificamente nel corso degli anni), risulta piuttosto difficile l’accostamento del pianeta sul quale viviamo a una qualsiasi forma piatta.

Per arrivare a definire in modo esatto la forma della Terra sono stati necessari secoli di misure, calcoli complessi, studi scientifici di dettaglio che sono stati rivisti e migliorati anno dopo anno; sono stati scritti trattati, libri e manuali e si hanno numerose pubblicazioni su prestigiose riviste scientifiche. Tutto ciò è stato il frutto del lavoro di scienziati che hanno dedicato la loro vita a questo, grandi menti che hanno investito buona parte del loro tempo (se non tutto) e che ancora al giorno d’oggi continuano a perfezionare il modello geoidale rappresentante la terra.

Sicuramente questi non avranno il tempo materiale per confutare sui Social Network improbabili teorie terrapiattiste, quindi è compito di ciascuno di noi affidarsi sempre a fonti attendibili e scientificamente riconosciute.

Tuttavia, anche senza scomodare geometrie non euclidee e meccanica rotazionale, accorgersi della curvatura della Terra è semplice. Basta aprire gli occhi e osservare.

 

Dott. Geol. Matteo Montesani

Dott. Innocenzo De Marco

 

Caratteri geologici del Bacino di Crotone

Il Bacino di Crotone

Il bacino di Crotone è ubicato nel settore nord orientale della Calabria, lungo il versante ionico ed è composto prevalentemente da rocce sedimentarie.

Può essere definito come un depocentro (zona di massima deposizione), riempito da sedimenti, che variano dall’ambiente continentale al marino profondo con un’età compresa tra il Serravalliano (c.a. 13 Milioni di anni fa) ed il Pleistocene (c.a. 2.5 Milioni di anni fa).

A livello geologico la zona è stata interpretata come una porzione di un ampio bacino denominato di “avanarco”, cioè un qualcosa che si è formato tra un originario arco magmatico, composto per l’appunto da vulcani ed un complesso di subduzione.

In parole povere si tratta di un’area della superficie terrestre formatasi per effetto della subsidenza, in cui si sono successivamente accumulati i sedimenti.

La subsidenza, infatti, essendo il motore di tutti i bacini sedimentari, vede la superficie topografica abbassarsi e sprofondare, rispetto alle zone circostanti, fornendo continuamente nuovo spazio per l’accumulo di altri sedimenti.

Fig.1: Schema geologico semplificato dell’Arco Calabro con la posizione del Bacino di Crotone (Massari et alii, 2002; Zecchin et alii, 2003)

 

Perché è importante il Bacino di Crotone?

Il Bacino di Crotone ha da sempre destato notevole interesse nella comunità scientifica per il grosso potenziale di geo-risorse sfruttabili; dagli idrocarburi gassosi dei Campi Luna ed Hera Lacinia a largo di Crotone, allo sfruttamento di salgemma con le miniere di Belvedere di Spinello e Zinga di Casabona fino ad arrivare alle miniere di zolfo di Strongoli.

È stato studiato in gran dettaglio sin dalla fine dell’800 da numerosi esperti del settore che hanno dato un contributo fondamentale per le conoscenze geologiche, tettoniche e stratigrafiche.

L’area del Bacino di Crotone è stata analizzata e investigata sia per scopi industriali, ai fini dello sfruttamento di idrocarburi e di salgemma, legato alla crisi di salinità del Messiniano[1], sia ai fini di previsione e prevenzione dei rischi naturali in quanto è presente un corpo evaporitico.

La presenza di risorse sfruttabili nell’offshore crotonese è proprio correlata al salgemma, il quale riesce a creare una condizione ideale e naturale per la formazione di idrocarburi.

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[1] L’argomento relativo alla crisi di salinità del Messiniano verrà trattato con un grado di dettaglio maggiore nel corso dei prossimi articoli.

 

Attività Eni Agip nel Bacino di Crotone

Fin dal 1952 l’Agip, oggi Ente Nazionale degli Idrocarburi (Eni), ha svolto attività esplorative in Calabria per la ricerca di idrocarburi.

Un’attività che ha portato ad una più approfondita conoscenza della regione da un punto di vista di geo-risorse, Dalle analisi effettuate è stata evidenziata la presenza di idrocarburi allo stato gassoso (circa il 99% da metano) mentre dall’analisi stratigrafica invece, si è visto che provengono da tre principali “reservoir” (serbatoi) contenuti nella fase pre-evaporitica, cioè prima dello strato che contraddistingue le rocce evaporitiche del crotonese (salgemma, gessi) con la scoperta, quindi, degli attuali giacimenti Luna ed Hera Lacinia a largo di Crotone.

Proprio nella zona di Crotone sono stati realizzati i pozzi Hera Lacinia 1 (1975), che ha rinvenuto strati gassiferi e nell’anno seguente altri due pozzi i quali accertavano che la mineralizzazione si estendeva anche nell’antistante offshore.

A terra veniva, invece, realizzato il pozzo Vitravo 1 (1976) risultato però sterile.

 

Fig.2: Le piattaforme di Luna ed Hera Lacinia a largo di Crotone

 

Nell’offshore ionico, l’Eni ha attualmente in esercizio gli impianti di produzione relativi al giacimento gassifero “Luna”.

Si è deciso lo sfruttamento del giacimento per mezzo di 12 pozzi, che sono stati eseguiti da una piattaforma fissa offshore, ubicata al largo di Crotone, su un fondale con una profondità d’acqua di 70 m, distante 7 km dalla costa con una profondità verticale dei pozzi di 1900 m.

Il Bacino di Crotone è sede di accumuli di gas già scoperti nei giacimenti Luna, Hera Lacinia e Lavinia.

 

Dott. Mario Cimieri

 

Bibliografia

Agip S.p.a. (1977) – Nota sulla ricerca petrolifera e sulla coltivazione dei giacimenti di idrocarburi nell’Italia Meridionale.

Massari F., Rio D., Sgavetti M., Prosser G., D’Alessandro A., Asioli A., Capraro L., Fornaciari E., and Tateo F. (2002) –  Interplay between tectonics and glacio-eustasy: Pleistocene succession of the Crotone Basin, Calabria (Southern Italy). Geological Society of American Bulletin, v. 114, p. 1183-1209.

Zecchin M., Massari F, Mellere D. and Prosser G. (2003) – Architectural styles of prograding  wedges in a tectonically active setting, Crotone Basin, Southern Italy. Journal of Geological Society of London, v. 160, p. 863-880

Zecchin M., Praeg D., Ceramicola S., Muto F. (2015) – Onshore to offshore correlation of regional unconformities in the Plio-Pleistocene sedimentary succession of the Calabrian Arc (central Mediterranean). Earth Scienze Reviews v. 142, p. 60-78

 

Processi pedogenetici e movimenti franosi

1.1     Cenni sulla pedogenesi

Una parte molto importante e interessante della Geologia, spesso poco conosciuta e approfondita, è la Pedologia.

In termini estremamente semplici, quest’ultima si occupa dello studio della pedogenesi, ossia di quell’insieme di processi di alterazione chimico-fisica, mineralogica e geotecnica che coinvolgono una roccia madre[1] di partenza, portando gradualmente alla formazione del “suolo”; tali processi sono indotti da fattori fisici, chimici e biologici ed è importante specificare che ogni fattore non è mai considerato in modo indipendente, bensì in stretto legame con tutti gli altri.

Con l’avanzare dell’azione dei processi pedogenetici, la roccia madre tende a perdere parte dei suoi caratteri originari, trasformandosi gradualmente, a partire dalla sua porzione più superficiale, in un suolo di neoformazione che avrà caratteristiche diverse rispetto alla roccia inalterata di partenza.

Il suolo può essere osservato sul campo sotto forma di una serie di superfici di alterazione ad andamento orizzontale-suborizzontale, che dal substrato inalterato (roccia madre) si sviluppano verso l’alto e che tecnicamente prendono il nome di “orizzonti pedologici”, i quali possono presentare caratteristiche simili o essere molto diversi tra di loro e che nel complesso costituiscono un “profilo pedologico”.

Fig. 1: Esempio di un profilo pedologico caratterizzato da 3 orizzonti pedologici (Montesani M., 2017).

 

La situazione geologica descritta poc’anzi, talvolta può rappresentare uno scenario di criticità per l’innesco di movimenti franosi superficiali, come verrà spiegato in dettaglio nel paragrafo successivo.

[1] In questo articolo, per una questione di semplicità, verrà utilizzato genericamente il termine roccia madre associato ai processi pedogenetici, in realtà bisognerebbe parlare genericamente di “materiale parentale”, in quanto i processi pedogenetici non agiscono esclusivamente sulle rocce, ma possono agire anche su altre tipologie di materiali.

 

 

 

1.2    Processi pedogenetici e frane superficiali

 

Gli effetti dei processi pedogenetici sulle rocce come fattori predisponenti, e talvolta scatenanti, di numerose frane superficiali, sono stati analizzati in diversi lavori: Cascini et Al. (2015), hanno analizzato numerose frane superficiali localizzate nella Catena Costiera, nel Massiccio della Sila e nel Graben di Catanzaro, impostate su successioni limoso-argillose o argilloso-limose, sulle quali sono stati individuati profili pedologici con spessori medi di circa 3 metri.

Dal suddetto lavoro è emerso che molte delle superfici di distacco delle frane superficiali, individuate a profondità comprese tra 1-3 metri, sono state precedute dall’apertura di fratture nei profili pedologici, con conseguente evoluzione del fenomeno franoso a seguito dell’infiltrazione di acqua lungo le fratture.

I dati geotecnici riportati nel lavoro, hanno inoltre evidenziato sostanziali differenze, in termini di valori di resistenza al taglio, tra il materiale parentale e i profili di alterazione e anche tra gli orizzonti pedologici costituenti i profili di alterazione.

 

Fig. 2: Movimento franoso superficiale che ha interessato una copertura pedogenetica che si è sviluppata su materiale parentale argilloso (Cascini et Al., 2015).

 

La pedogenesi ha avuto un ruolo chiave anche in un evento franoso catastrofico, come quello che il 5 maggio 1998 ha coinvolto gli abitati di Sarno, Quindici, Siano, Bracigliano e S. Felice a Cancello (Napoli), causando 161 vittime; a tal proposito, nei lavori di Basile et Al. (2003) e Terribile et Al. (2007), è stato messo in evidenza il ruolo chiave che hanno avuto i suoli con proprietà andiche (Andosuoli), in relazione all’innesco del movimento franoso.

Gli Andosuoli presentano proprietà specifiche quali tissotropia, alta capacità di ritenzione idrica, consistenza friabile, elevato contenuto di materia organica ed elevata microporosità, un insieme di proprietà che rendono nel complesso questi suoli particolarmente fertili e soprattutto molto vulnerabili all’innesco di movimenti franosi (Terribile et Al.,2007).

Nello specifico, dai suddetti lavori è emerso che l’innesco dei movimenti franosi si è avuto in seguito alla formazione di superfici di distacco all’interfaccia tra orizzonti pedogenetici diversi, in particolare caratterizzati da importanti variazioni delle proprietà idrauliche con la profondità.

Infine, la ricerca svolta nel corso del mio lavoro di tesi Magistrale (Montesani M.,2017), ha permesso di mettere in atto uno studio integrato a carattere pedologico, chimico-fisico, mineralogico e geotecnico, condotto in località “Dottorella” nel comune di Mileto (Vibo Valentia), un’area interessata da importanti fenomeni franosi che spesso provocano notevoli disagi, in quanto la zona è percorsa da diverse arterie stradali principali ed è inoltre servita da una stazione delle Rete Ferroviaria Italiana.

Lo studio si è rivelato uno strumento molto potente al fine di mettere in evidenza il ruolo che hanno avuto i processi pedogenetici nella predisposizione al dissesto dell’area e nel meccanismo di innesco di una frana superficiale che ha avuto luogo la notte tra il 15 e il 16 marzo 2013; in particolare, volendo sintetizzare al massimo, dallo studio è emerso che la pedogenesi tende a rendere il materiale maggiormente mobilizzabile sotto l’azione dei processi erosivi, predisponendo fortemente l’area all’innesco di movimenti franosi superficiali, considerati anche i forti apporti pluviometrici che si hanno nel corso delle stagioni invernali, sotto l’influenza del clima di tipo Mediterraneo.

 


Bibliografia

 

Basile A., Mele G., Terribile F.,. «Soil hydraulic behaviour of a selected benchmark soil involved in the landslide of Sarno 1998.» Geoderma 117 (2003): 331-346.

Cascini L., Ciurleo M., Di Nocera S.,Gullà G,. «A new-old approach for shallow landslide analysis and susceptibility zoning in fine-grained weathered soils of southern Italy.» Geomorphology 241 (2015): 371-381.

Montesani M. «Caratterizzazione pedologica, chimico-fisica, mineralogica e geotecnica della frana in località “Dottorella” di Mileto (Vibo Valentia).» Tesi di Laurea Magistrale in Scienze Geologiche, 2017.

Terribile F., Basile A., De Mascellis R., Iamarino M., Magliulo P., Pepe S., Vingiani S. «Landslide processes and andosols: the case study of the Campania region, Italy.» Soils of Volcanic Regions in Europe, 2007: 545-563.

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Dott. Geol. Matteo Montesani

IL FENOMENO DEL DISSESTO IDROGEOLOGICO NELLA REGIONE CALABRIA

1.     Il rischio idrogeologico

Il termine dissesto idrogeologico viene utilizzato per indicare tutti i danni – reali o potenziali – e i fenomeni il cui innesco, caratteristiche e dinamica, sono condizionati prevalentemente dall’elemento “acqua”, dalle caratteristiche di rocce e terreni, nonché dalla morfologia del paesaggio: in modo più generico, quindi, dalla “storia geologica” di una determinata area.

Le manifestazioni più tipiche di fenomeni idrogeologici sono frane, alluvioni, erosioni costiere, subsidenze e valanghe (http://www.protezionecivilecalabria.it/).

In Calabria il dissesto idrogeologico è diffuso in modo capillare e rappresenta una problematica di notevole importanza. Tra i fattori naturali che predispongono il nostro territorio ai dissesti idrogeologici rientra la sua conformazione geologica e geomorfologica, caratterizzata da un’orografia (distribuzione dei rilievi montuosi) complessa e bacini idrografici generalmente di piccole dimensioni, che sono quindi caratterizzati da tempi di risposta alle precipitazioni estremamente rapidi. Il tempo che intercorre tra l’inizio della precipitazione piovosa e il manifestarsi della piena nel corso d’acqua può essere dunque molto breve. Eventi meteorologici intensi, combinati con queste caratteristiche del territorio, possono dare luogo dunque a fenomeni alluvionali violenti caratterizzati da cinematiche anche molto rapide.

Il rischio idrogeologico è inoltre fortemente condizionato anche dall’azione dell’uomo.

La densità della popolazione presente su aree a rischio idrogeologico, l’abusivismo edilizio, l’abbandono dei terreni montani, gli incendi, la mancata manutenzione dei versanti e dei corsi d’acqua aggravano il dissesto e mettono ulteriormente in evidenza la fragilità del territorio calabrese aumentando l’esposizione ai fenomeni e quindi il rischio stesso.

La frequenza di episodi di dissesto idrogeologico, che hanno spesso causato la perdita di vite umane e ingenti danni ai beni impongono una politica di previsione e prevenzione non più incentrata sulla riparazione dei danni e sull’erogazione di provvidenze, ma sull’individuazione delle condizioni di rischio e sull’adozione di interventi per la sua riduzione (http://www.protezionecivilecalabria.it/).

 

2.     Dissesto da frana nella Regione Calabria:

Come menzionato nel paragrafo precedente, una delle problematiche principali della Regione Calabria è sicuramente correlata al rischio idrogeologico e in particolar modo al rischio frana.

Da alcune indagini eseguite per l’elaborazione del Piano di Assetto Idrogeologico (P.A.I.), si evidenzia con chiarezza che i territori già interessati da fenomeni di dissesto idrogeologico negli anni ’50, sono stati urbanizzati e profondamente modificati sia attraverso l’attività di Pianificazione urbana sia con l’intervento non autorizzato di privati; nello specifico, a partire dagli anni ’70, si è assistito ad un progressivo degrado del territorio di questa Regione e il dissesto idrogeologico costituisce l’effetto più evidente di tale processo (Pellegrino e Borrelli, 2005).[1]

[1]  <<Analisi del dissesto frana in Calabria>>; Pellegrino Annamaria e Borrelli Sergio, 2005.

 

Fig.1: Dati sui centri abitati instabili in Calabria dal 1907 al 1999 (Pellegrino e Borrelli, 2005).

 

La Regione Calabria si è avvalsa dell’Autorità di Bacino Regionale (ABR) per la realizzazione del progetto IFFI, ossia l’inventario informatizzato dei fenomeni franosi.

I dati statistici riportati dal suddetto progetto, benché eterogenei e differenziati a causa della diversità delle fonti di informazione, evidenziano non solo l’elevato numero di siti sui quali incombe pericolo di frana, ma anche il perdurare sul territorio di una situazione emergenziale, che è fonte di notevole dispendio delle risorse finanziarie.

L’analisi complessiva di circa 9000 frane, censite su circa il 40% del territorio regionale (6032 km²), ha permesso di individuare le tipologie di movimento predominante, ascrivibili principalmente a scorrimenti e a movimenti complessi; secondariamente, anche ad “aree soggette a frane superficiali diffuse”.

Relativamente ai movimenti complessi, la Calabria può vantare un primato su scala nazionale, sia in termini di estensione che di numero per le peculiari condizioni geologiche del territorio (Pellegrino e Borrelli, 2005).

 

Fig. 2: Esempio di uno stralcio della “Carta inventario dei centri abitati instabili”- P.A.I. Regione Calabria.

 

In figura 2 è stato riportato un esempio di cartografazione e classificazione dei fenomeni franosi, a cura dell’Autorità di Bacino della Regione Calabria nell’Ambito del Piano Stralcio di Bacino per l’Assetto Idrogeologico (D.L. 180/98).

In conclusione, in questo articolo è stato fatto un breve excursus inerente al rischio idrogeologico e, in particolare, al rischio frana, contestualizzato al nostro territorio regionale; inoltre, sono stati fatti dei cenni su alcune tipologie di movimenti franosi (nelle righe precedenti si è parlato di scorrimenti e movimenti franosi complessi), i quali verranno trattati ed esplicati con un grado di dettaglio maggiore nel prossimo articolo.

 

Intervento realizzato da

Dott. Geol. Matteo Montesani

Terremoto, scossa di ML 3.5 nel lametino.

Pochi minuti fa si è verificata una scossa di terremoto nei dintorni di Lamezia Terme (CZ).

Dai dati appena emessi dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV), si tratterebbe di un sisma di magnitudo di  ML 3.5 sulla scala Richter  ad una profondità di 74 km.

orario dell’evento – 27-01-2018 19:29:14 (UTC +01:00) ora italiana.

Maggiori informazioni si possono avere sulla pagine dedicata all’evento: http://cnt.rm.ingv.it/event/18129921

Fonte: ingv.it

GEOLOGIA DEL PROMONTORIO DI MONTE PORO

 

Il promontorio di Monte Poro ricade nel settore centro-meridionale dell’ACP e rappresenta un rilievo isolato che si erge sul versante tirrenico fino ad un’altitudine di 710 m s.l.m.

Il rilievo è delimitato dalla penisola di Capo Vaticano ad ovest e dalla valle del fiume Mesima ad est ed è caratterizzato da valli profondamente incise che sfociano per la quasi totalità sulla costa; nell’area si hanno inoltre frequenti fenomeni franosi di vario tipo, in prevalenza scorrimenti rotazionali e crolli, lungo i versanti acclivi delle scarpate di faglia principali, alte fino a 400-500 m s.l.m. (Sorriso-Valvo et Al., 2000-2006).

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PENISOLA DI CAPO VATICANO: CARATTERI GEOLOGICO-STRUTTURALI.

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La penisola di Capo Vaticano si estende lungo il margine tirrenico dell’ACP ed è delimitata a nord e ad ovest dal Mar Tirreno, ad est dalla valle del fiume Mesima e infine a sud dal bacino di Gioia Tauro.

Dal punto di vista tettonico la penisola di Capo Vaticano rappresenta una struttura a horst bordata da due faglie normali antitetiche, quali la faglia di Tropea immergente verso W-NW e la faglia di Mileto immergente verso E-SE (Bianca et Al., 2011).

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ELEMENTI GEO-LITOLOGICI DEL MASSICCIO DELLA SILA.

Il Massiccio della Sila costituisce il margine orientale europeo della catena orogenica ercinica (Borrelli et Al., 2015; Scarciglia et Al., 2008) ed è costituito da unità tettono-stratigrafiche di tipo alpino (basamento cristallino) sovrascorse durante il Miocene sulle unità meso-cenozoiche carbonatiche dell’Appennino Meridionale.

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